domenica 29 gennaio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 11. Camera con vista. A Firenze in tre.

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Romano Monterovere fece la sua proposta di matrimonio a Elisa Lanni durante una gita a Firenze, nel 1937.
Elisa era incinta.
Molti anni dopo, quando il figlio nato da quella gravidanza si apprestava ad andare a Firenze per la prima volta, Elisa gli avrebbe detto "Non è la prima. Ci sei già stato".
Romano era un tipo taciturno, per cui Elisa sapeva ben poco di lui, nonostante si frequentassero da più di un anno.
<<Accetto, ma a condizione che tu risponda a tutte le domande che ti farò>>
Non era una condizione facile, ma Romano Monterovere accettò, perché in fondo sapeva che, se non si vuole dare una risposta, è sufficiente dire una mezza verità.
Glielo aveva ripetuto spesso suo nonno Ferdinando, quello morto all'Orma del Diavolo: "Il vero mentitore non dice bugie, ma soltanto mezze verità".
Le domande incominciarono.
Tra le più singolari ce ne furono alcune che rimasero impresse nella mente di entrambi:
<<So che sei nato quando ancora la tua famiglia abitava in montagna, in mezzo ai boschi. Ti mancano quelle montagne e quei boschi?>>
Lui annuì:
<<Non passa giorno in cui non ne senta la mancanza. Ah, com'era verde la mia valle ...>>
Verde e infestata di spiriti, ma questa era una storia troppo incredibile per essere raccontata, pur essendo vera.
<<Ed è vero che quando eri in Africa hai avuto una storia con una ragazze etiope>>
Lui sorrise:
<<Se avessi voluto nasconderlo, non mi sarei portato dietro una sua fotografia. Ma era soltanto una storia senza futuro. I matrimoni misti non sono certo incoraggiati nell'Impero Italiano>>
Non le disse che aveva lasciato una parte del suo cuore ad Asmara, ma lei lo aveva capito comunque.
Elisa lo incalzò:
<<Hai fatto molti errori nella tua vita?>>
Romano tornò ad annuire:
<<Tantissimi, ma tutti necessari. Senza certi errori non si può imparare a vivere>>
<<E adesso hai imparato?>>
<<Non del tutto. Ti avverto: non sarà facile convivere con me>>
Elisa aveva capito anche questo.
Le asperità del carattere del suo futuro marito le erano chiare, tranne una cosa:
<<E tu? Come fai a convivere con te stesso?>>
Gli occhi di lui si persero in una nube di pensieri, mentre rispondeva a voce bassa e roca:
<<Non lo so>>
Era difficile: la sua personalità era ossessivo-compulsiva, abitudinaria, perfezionista, fin troppo prudente.
<<Ti aiuterò io>> disse Elisa.
Si sposarono pochi mesi dopo.
Fintanto che Elisa ebbe vita, mantenne la sua promessa.

Vite quasi parallele. Capitolo 10. La Signorina De Toschi



Ospite fissa agli eventi mondani dell’Alta Società, la signorina Mariuccia De Toschi era un’attempata nubile di buona famiglia e, per parte di padre, di ostentate origini fiorentine (anche se tutti sapevano che era nata e cresciuta a Forlì), unica figlia ed erede del glorioso generale Ardito De Toschi e della compianta nobildonna Violetta Orsini di Casemurate, sorella del defunto Conte Alberico.
Di Violetta Orsini quasi nulla si sapeva, essendo morta di tisi poco dopo aver dato alla luce la figlia Mariuccia. Del resto la stessa Violetta aveva sempre sostenuto che una donna onesta di buona famiglia compare solo tre volte nei giornali: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
Del generale De Toschi, invece, erano note tutte le gesta, decantate dalla moltitudine di attendenti succedutisi al suo servizio, per poi elevarsi verso luminose carriere nei più svariati ambiti dell’Alta Società.
Ardito De Toschi, nato a Firenze nel 1865, era stato in gioventù allievo ufficiale all’Accademia di Modena, poi tenente nella Guerra di Eritrea e Somalia, capitano nella guerra di Libia, colonnello durante la Grande Guerra, Cavaliere di Vittorio Veneto (medaglia d’oro, secondo le leggende più accreditate). Generale nella Guerra d'Etiopia, comandante della spedizione spagnola a fianco dei sostenitori di Francisco Franco (“il babbo salverà la Spagna dai comunisti” soleva rammentare sua figlia), aveva da poco ottenuto il grado di generale di corpo d'armata.
Di ritorno dalle imprese iberiche, carico di gloria in seguito ad una ferita alla gamba destra, si era congedato dal servizio alla Patria e aveva preso dimora a Forlì, la città vicino al Feudo della defunta moglie Violetta Orsini. E proprio a Forlì sua figlia Mariuccia aveva studiato e ottenuto l’incarico di docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico.
A tal proposito, nella città della bassa romagnola si narra ancora questo simpatico aneddoto.
Laureatasi a 23 anni in Lettere Classiche a Bologna nel 1913, la signorina Mariuccia aveva sostenuto a Roma il concorso per la docenza superiore: in tale occasione, agli orali, ella sarebbe stata accompagnata “dal babbo” in alta uniforme e decorazioni militari, che con aria cupa e vagamente minacciosa avrebbe così apostrofato (con spiccato accento toscano) la commissione d’esame: «Chodesta è la mi’ unicha figliola! Che Dio la benedicha! Trattatemela bene o chonoscerete la lealtà degl’atthendhenti del cholonnello De Toschi!»
Inutile dire che la “cara figliola” passò l’esame col massimo dei voti.
I suoi primi studenti giuravano che la signorina Mariuccia all’inizio della carriera fosse bellissima: si elogiavano le sue lunghe trecce bionde acconciate sul capo, gli occhi color acquamarina, e il fisico prosperoso.
Eppure Diana Orsini, che andava a ripetizione di latino e greco da lei, (non che ne avesse bisogno, ma la Signorina ci teneva, in quanto Diana era figlia di suo cugino, il Conte Achille) nei primi anni Trenta, la ricordava già obesa, gonfia, catarrosa, afflitta da raffreddori perenni e accanita fumatrice (“con una mano teneva la sigaretta e con l’altra il fazzoletto da naso”).
Che fosse una mangiatrice da competizione era cosa nota: in particolare era ghiotta di salumi e insaccati, e tra i regali più graditi che potesse ricevere vi erano prosciutti, mortadelle, cotechini, zamponi e salsicce, o, come lei diceva: “salcicce”.
Diana l’aveva imparato a sue spese. Una volta infatti, pensando di farle cosa gradita, le aveva regalato per Natale alcuni libri di cultura letteraria e classica. La signorina Mariuccia, gelida e quasi offesa, non aveva neppure scartato i pacchi. Il Natale successivo alcuni giurarono di avere ricevuto gli stessi pacchi in regalo dalla signorina.
Per Pasqua, Diana le aveva regalato una spilla: questa volta la signorina aveva mostrato un qualche segno di apprezzamento, ma subito, quasi in lacrime, aveva dichiarato che, onde evitare che il regalo portasse sfortuna, c’erano solo due soluzioni: o lei stessa avrebbe dovuto dare 5 lire a Diana, oppure avrebbe dovuto farsi pungere dalla spilla.
Preferì farsi pungere.
Diana, che aveva capito l’antifona, il Natale successivo le regalò un cesto pieno di salumi e formaggi, e la signorina la baciò e l’abbracciò più volte, piangendo a dirotto per la gioia.
A scuola era il terrore dei suoi studenti, mentre con quelli di ripetizione privata soleva mostrarsi materna, specialmente se erano figli di medici, avvocati, notai, dentisti, ma anche, non si sapeva mai, di idraulici, elettricisti, muratori e altri professionisti di comprovata utilità.
Teneva le ripetizioni tutto il pomeriggio in uno stanzino a piano terra della sua villetta, freddissimo e scomodo.
Nessuno mai ebbe accesso al piano nobile, il “sancta sanctorum”, dove l’anziano generale-padre trascorreva la sua dignitosa vecchiaia.
Alle 5 in punto del pomeriggio la governante, signora Gelsomina, madre del parroco locale, le portava il tè e le sigarette.
Ogni mattina la signorina Mariuccia e la signora Gelsomina si recavano a messa alle 6, con la carrozza di proprietà dei Conti Orsini, mandata apposta quotidianamente dalla loro Villa di Casemurate, poiché la signorina, pur essendo benestante, non possedeva mezzi di trasporto e tantomeno andava in bicicletta, cosa disonorevole per una persona del suo rango e comunque non compatibile con i suoi mai del tutto definiti problema alla vista.
Dopo la Santa Messa, le due pie donne si recavano al cimitero, a portare fiori sulla tomba della defunta madre della signorina.
Poi, con l’anima monda dai peccati e il Corpo di Cristo in petto, la signorina si recava al lavoro, al Liceo Classico a terrorizzare i malcapitati studenti con interrogazioni a tappeto sulla consecutio temporum.
Se prendeva in antipatia uno di questi, per lui era finita. Tartassato, rimandato, bocciato, costretto a cambiare istituto, quasi sempre lo sventurato finiva per abbandonare gli studi.
Se al contrario prendeva uno studente in simpatia, costui si diplomava a pieni voti, e gli si apriva un avvenire florido, sostenuto dai vari “attendenti del babbo” infiltrati in ogni angolo dell’Alta Società.
Esempio di tale simpatia era l’Onorevole Avvocato Everardo Meloni, eterno e onnipotente Sottosegretario alla Difesa, nonché marito di Caterina Ricci, la sorella di Ettore.
In verità la signorina De Toschi, pur essendo in grande amicizia con i vecchi notabili liberali (ai quali faceva capire strizzando l’occhiolino che era ancora dalla loro parte). e pur avendo giurato eterna fedeltà solo e soltanto al Papa e al Re (come aveva confidato ad un imprecisato numero di “attendenti del babbo”), ostentava pubblicamente il gagliardetto fascista.
Ma non era tanto il voto politico a costituire il grande mistero della signorina De Toschi, quanto la sua vita sentimentale.
Su questa materia si favoleggiavano le più disparate leggende.
Innanzi tutto era assodato che la signorina aveva una speciale attrazione per gli uomini giovani e robusti, in genere lavoratori manuali, meglio se poco istruiti.
Ai tempi dell’università aveva preso una sbandata per un aitante giovanotto, che ella presentò al padre prima come studente di ingegneria, poi come diplomato geometra, infine, quando la nuda verità non poteva essere più nascosta, come muratore a cottimo.
Di costui non si seppe più niente, anche se molti dicono che una sera fu preso a bastonate da alcuni individui non identificati.
Il secondo grande amore della signorina fu, manco a dirlo, un altro muratore, che era marito di una collega con gli stessi gusti “ruspanti”, che divenne in breve tempo la sua migliore amica.
Costei si chiamava Liliana e il marito Primo o Priamo o Priapo…non è dato sapere con esattezza, comunque si diceva che fosse un nome ben rappresentativo del personaggio.
La signora Liliana era donna di buon cuore e spesso invitava a pranzi luculliani la vorace signorina De Toschi, la quale, non paga di ingozzarsi di tortellini e piadine al salame, si mangiava con gli occhi pure il carissimo Priapo.
Accadde poi che la signora Liliana morisse di una leucemia fulminante.
Da quel momento la signorina De Toschi fu in prima fila a consolare l’inconsolabile vedovo.
Dopo alcuni mesi la si vide indossare la pelliccia che era stata della signora Liliana, e poi la collana di turchese, sempre della defunta, e gli orecchini di corallo, e il collier d’oro bianco e via dicendo.
Quando l’intera eredità della compianta Liliana fu incamerata in casa De Toschi, escluso il vedovo, la grande storia d’amore finì, ufficialmente perché “il babbo non voleva”, ma secondo altri perché le doti priapiche del suddetto Priapo non soddisfacevano abbastanza la pia signorina.
Il terzo grande amore fu per il marito di un'altra sua amica, la maestra Clara Ricci.
Giorgio Ricci, il cui irsutismo ipertricotico denotava una debordante presenza di testosterone nel suo organismo, aveva doti priapiche di cui si narravano leggende oscene.
Il suo stesso figlio Ettore ricordava di averlo visto nudo una volta che faceva il bagno in una tinozza nella penombra del tugurio adibito a lavanderia. Per quanto buio fosse l'ambiente, avrebbe giurato sulla sua stessa testa che i testicoli del vecchio padre fossero grossi come uova di piccione.
L'attempata signorina De Toschi non dimenticava le ore di sollazzo che il vecchio Giorgio Ricci le aveva regalato, ed era sempre pronta a ricambiare il favore.
A parlarle fu la maestra Clara, che le spiegò quando fosse doloroso, per la sua famiglia, l'ostinato rifiuto di Diana Orsini nell'accettare il corteggiamento di Ettore Ricci.
Mariuccia De Toschi annuì vigorosamente, facendo tremolare tutta la pappagorgia, poi sollevò un indice verso il cielo e disse: <<Ci penso io!>>