sabato 10 giugno 2017

Il concetto di Mantra

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Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra" e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.
La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture religiose che vanno sotto il nome di VedismoBrahmanesimoBuddhismoGiainismoInduismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta l'Asia giungendo in Tibet, in Cina e, attraverso quest'ultima, in GiapponeCorea e Vietnam.

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Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue asiatiche[

Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce")[1].
Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione"[2].
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito mantra viene così reso:

Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica

Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita[3]:
(SA)
« śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ »
(IT)
« Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino. »
(Ṛgveda, I,89,9. Traduzione di Saverio Sani, in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag.178)
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda)[4].
mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa)[5]. Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte[5].
Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo[6].
I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa)[6]. In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa[7] ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche

La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (puja); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera[8]. Ogni mantra va usato nel modo corretto, e a secondo del modo può dare differenti risultati:
« I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli. »
(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'IndiaOp. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.[9].

La pratica dei mantra

Un mantra, rigorosamente in lingua sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo[10] o da generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono dissimili dalla consacrazione delle icone[11].
L'atto di enunciare un mantra è detto uccāra in sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di japa, e di solito è praticata servendosi dell'akṣamālā, un rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono ripetuti fino a un milione di volte:
« Ogni ripetizione indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la condizione delle ulteriori esperienze. »
(Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
Un aspetto importante nell'uccāra è il controllo della resipirazione. Frequente, soprattutto nelle tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è "movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia interiore.[12].

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bīja


bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono[13]:
  • AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono[14] il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
  • AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
  • HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
  • ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
  • KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
  • KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
  • DUṂ: la dea Durga.
  • GAṂ: il dio Ganapati.
  • HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
  • LAṂ: la terra
  • VAṂ: l'acqua
  • RAṂ: il fuoco
  • YAṂ: l'aria
  • HAṂ: l'etere
Nella Yogattatva Upaniṣad i suddetti bīja, corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da quest'ultimo alla sommità del capo: etere. La recitazione consente di acquisire poteri occulti per queste parti del corpo.[15]
  • SAUḤ: il cuore, simbolo dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat ("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza in Dio, la sua immanenza nel mondo[12].
Infine, i cinquanta fonemi dell'alfabeto sanscrito[16] possono essere utilizzati come mantra essi stessi, singolarmente o variamente combinati[17]; ogni fonema può corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei mantra[18].

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Alcuni mantra

  • Rudra mantra
ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम् ।उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi, profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci dai legami della morte."
Il mantra è rivolto a Śiva nel suo aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211); Uddīsha Tantra (94)[19].
ॐ भूर्भुवस्व: | तत् सवितूर्वरेण्यम् | भर्गो देवस्य धीमहि | धियो यो न: प्रचोदयात्
Oṃ bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi della vita]."
Composto di dodici più dodici sillabe, è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10); Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (5, 15)[20].
ॐ मणि पद्मे हूँ
Om Mani Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello, simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù contemplata dal Buddhismo.[21].
  • Mantra rāja
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna, Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."
Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino[19].
  • Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā
Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei: Karpūradi Stotra (5); Karpura-stava (5)[22].
  • Śiva panchākśara mantra
ॐ नम: शिवाय
Oṃ namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."
È il mantra principale nelle correnti devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa[23].
  • Netra mantra
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra dell'occhio di Śiva", ed è citato nel Netra Tantra, cap. VII[24].
  • Viṣṇu astākśara mantra
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."
Il mantra è rivolto a Viṣṇu, essendo Nārāyaṇa appellativo del dio[25].
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare
Noto anche come Mahā mantra ("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a partire dagli anni sessanta per opera della International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come "gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York[26]Hare è uno degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa medesimo, completa manifestazione di Īśvara[27][28].

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Note

  1. ^ Tra gli altri, Agenanda BharatiThe Tantric Tradition. Londra, Rider, 1966, pag. 103. Su questa definizione etimologica di mantra anche Frederick M. Smith e Sanjukta Gupta rispettivamente nelle edizioni 2005 e 1988 della Encyclopedia of Religion edita dalla Macmillan di New York.
  2. ^ Su questa definizione tradizionale, cfr., ad esempio, Philippe CornuDizionario del Buddhismo. Milano, Bruno Mondadori, 2003, pag.372.
  3. ^ Cfr. a tal proposito, Margaret Sutley e James Sutley in Dizionario dell'Induismo, Roma, Ubaldini, 1980, pag.263. Ma anche Frederick M. Smith:
    « In the earliest Indian text, the Ṛgveda, it often had the sense of “invocation,” while in later literature it is closer to “incantation,” “word(s) of power,” “(magic) formula,” “sacred hymn,” “name of God,” or sometimes simply “thought.” »
    (Frederick M. SmithEncyclopedia of Religion, vol.8. NY, Macmillan, 2005, pag.5676)
  4. ^ Klaus K. Klostermaier
  5. ^ a b Margaret Sutley e James Sutley. Op.cit..
  6. ^ a b Frederick M. SmithOp.cit..
  7. ^ Śatapatha Brāhmaṇa V,4,4,13.
  8. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 381
  9. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 137 e 140.
  10. ^ Alcuni mantra sono riservati e i testi li riportano in maniera criptata per salvaguardarne la segretezza.
  11. ^ G. Flood, L'induismoOp. cit., p. 303 e segg.
  12. ^ a b A. Padoux, TantraOp. cit., p. 142 e segg.
  13. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 380 e segg.
  14. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 144.
  15. ^ Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 129. Eliade riporta la seguente grafia per i bījalavarayaka.
  16. ^ I fonemi sono in realtà quarantanove, da A ad H, a questi le tradizioni tantriche aggiungono il suono composto KṢ.
  17. ^ L'alfabeto in questo caso diviene una deaMātṛkā.
  18. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 139.
  19. ^ a b A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 391
  20. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 390
  21. ^ Le seigneur du Lotus blanc, Le Dalaï-Lama, par Claude B. LEVENSON, Paris, Édition lieu commun, collection le livre de poche, 1987, pp. 239 à 241.
  22. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 389
  23. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 393
  24. ^ A. Padoux, TantraOp. cit., p. 138 e 144.
  25. ^ A. Daniélou, Miti e dèi dell'IndiaOp. cit., p. 394
  26. ^ Vedi Gli Hare Krishna e gli altri gruppi Gaudiya
  27. ^ Vedi What is Hare Krishna?
  28. ^ Vedi anche Hare Krishna Maha-Mantra

Bibliografia

  • Alain DaniélouMiti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008.
  • Gavin FloodL'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
  • André PadouxTantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011.

Voci correlate




Il concetto di Bhakti

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Bhakti (devanagari भक्ति) è un termine sanscrito che nelle tradizioni religiose dell'India indica l'aspetto devozionale della fede[1] in una divinità personale o anche un maestro spirituale, caratterizzato spesso da una partecipazione emotiva intensa e totalizzante. "La via della bhakti" (bhaktimarga[2] o anche Bhakti Yoga) è, in molte di queste tradizioni, uno dei mezzi per ottenere la liberazione (mokṣa).[3]

Aspetti etimologici

La radice del termine bhakti è bhaj, dai molteplici significati, quali ad esempio: distribuire, dividere, donare, possedere, praticare, coltivare, adorare, amare.[4]
Dalla medesima radice abbiamo il termine bhajan, indicante una generica canzone devozionale in uso presso diverse tradizioni dell'induismo.[5]

Storia dei movimenti devozionali


Il poeta Jayadeva si inchina a Vishnu, dipinto del XVIII sec.
I primi movimenti devozionali, così come oggi intesi, trovarono affermazione nell'India del sud, presso le correnti religiose dei Nāyaṉār shivaiti e degli Āl̥vār vishnuiti non prima del VI-VII secolo e.v.[2]
Il termine, bhakti, sembra però già fare la sua apparsa in una Upaniṣad del periodo medio, la Śvetāśvatara Upaniṣad (IV-II secolo a.e.v):
(SA)
« yasya deve parā bhaktir yathā deve tathā gurau - tasyaite kathitā hy arthāḥ prakāśante mahātmanaḥ prakāśante mahātmanaḥ »
(IT)
« Colui il quale possiede la massima fede [bhakti] nel Dio, e come nel Dio così ha nel guru, per costui splendono le verità qui esposte, per costui il quale è un Grande Spirito. Oṃ! Tat sat. Oṃ![6] »
(Śvetāśvatara Upaniṣad, VI, 23; citato Upaniṣad antiche e medie, a cura e traduzione di Pio Filippani-Ronconi, riveduta a cura di Antonella Serena Comba, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 2007.)
L'accademico britannico Gavin Flood[7] ipotizza che, comparendo il termine proprio nell'ultima strofa, possa però trattarsi di un'interpolazione successiva. Flood prosegue mettendo in evidenza che comunque il testo presenta più passi nei quali è possibile cogliere il ruolo della bhakti, anche se il termine non è espressamente utilizzato.
È però presso la cultura tamil che la bhakti (in lingua tamilபக்தி) si sviluppa da semplice concetto a movimento religioso vero e proprio. A contribuirvi in maniera decisiva sono la tradizione della poesia amorosa (già delineata in India meridionale nei primi secoli e.v.) e il culto popolare di Murukaṉ, divinità dell'amore e della guerra al contempo. Nei culti del Tamil Nadu sussistevano elementi che si ritrovano anche nel culto del dio greco Dioniso: a officiare le cerimonie erano sacerdotesse che venivano "possedute" dal dio e danzavano in estasi. Nelle epoche successive Murukaṉ finì per essere assimilato a Skanda, figlio di Shiva nella mitologia.[8]
All'incirca nel III secolo la figura del dio Krishna comincia a diffondersi nell'India del Sud, incontrando questi movimenti devozionali col risultato di un allargamento e accrescimento della devozione quale movimento di larga diffusione che avrebbe poi influenzato anche l'India del Nord. Siamo nel VII secolo circa, e la devozione trova espressione letteraria nella poesia dei Nāyaṉār, tradizione poetico-religiosa shivaita, e soprattutto nei canti devozionali degli Āl̥vār[9], tradizione vishnuita.[10] Così si esprime il poeta e musico tamil Appar (VII sec.)[11]:
« Che ragione c'è di cantare i Veda? Capire i Commentari? Praticare quotidianamente la legge morale? Imprarare un Anga o tutti e sei? – Portare il Signore nel proprio cuore, questo solo procura la salvezza. »
(Appar; citato in Louis RenouL'induismo, traduzione di Luciana Meazza, Xenia, 1993, p. 60)
Il Bhāgavata Purāṇa (X secolo ca.), testo fondamentale del vaishnavismo, scritto in sanscrito ma composto nell'India meridionale, è stato molto influenzato dalla letteratura devozionale, e a sua volta finì per influenzare la letteratura sanscrita devozionale dell'India del Nord, soprattutto nel Bengala.[12]
Ed è proprio nei Purāṇa, testi di carattere mitologico, cosmologico e celebrativo composti in un arco di tempo che va dai primi secoli dell'era attuale fino all'epoca moderna, che la bhakti trova la sua espressione letteraria compiuta. L'indologa francese Madeleine Biardeau ha definito i Purāṇa «l'universo della bhakti»[13], nel senso che il teismo successivo al periodo brahmanico è qui evidenziato e "narrato" soprattutto nel suo aspetto devozionale. ShivaVishnu e le Devi sono le divinità principali cui è rivolta questa devozione.
La bhakti era altresì presente nelle tradizioni tantriche dell'India del Nord, non come movimento o cammino come successivamente inteso, ma come elemento del culto in generale. Nella letteratura relativa un esempio di devozione fra i più remoti è quello del filosofo e mistico kashmiro Utpaladeva (X secolo) coi suoi Inni a Shiva (Śivastotrāvalī)[14].[15] Così riassume l'indologo francese André Padoux:
« Una volta superato il vedismo, l'India religiosa è diventata innanzitutto devozionale: la bhakti ha potuto acquisire alcuni tratti tantrici, ma è stato in particolar modo il mondo tantrico a essere connotato dalla devozione. »
(André PadouxTantra, traduzione di Carmela Mastrangelo, a cura di Raffaele Torella, Einaudi, 2011, p. 181)
Ma il testo più noto e determinante per l'affermazione della bhakti è la Bhagavadgītā ("Il canto del Signore")[16], poemetto estratto dalla grande epopea del Mahābhārata. Nel discorso che il dio Krishna fa al condottiero Arjuna prima della battaglia di Kurukshetra, Egli elenca le varie strade della liberazione ponendo l'accento sulla bhakti:
« Colui che, fra i devoti, spiegherà questo mistero supremo, particando la più alta devozione, quelli giungerà a me: è una certezza. Fra gli uomini, nessuno lo supererà nel compimento di opere che mi sono care e sulla terra nessun altro mi sarà più caro di lui. »
(Bhagavadgītā XVIII, 68-69; a cura di Anne-Marie Esnoul, traduzione di Bianca Candian, Adelphi, 2011, p. 172)
Successivamente, Ramanuja (1017–1137), Jayadeva (XI-XII secolo), Vallabhadeva (XV secolo), Rūpa GosvāminJīva Gosvāmin (morti entrambi nel 1591) e Jagannātha Paṇḍitarāja (1590 circa-1665 circa) sono fra i più noti pensatori che espressero, anche in forma poetica, i contenuti e gli obiettivi della bhakti.

La bhakti e le sue espressioni


Altare domestico per l'esecuzione della pūjā, cerimonia di adorazione di una divinità
Così lo storico delle religioni francese Louis Renou definisce la bhakti:
« Partecipazione affettiva dell'uomo al divino, fede amorosa, devozione emotiva che si manifesta con un desiderio appassionato di unione con il Signore, con un abbandono alla volontà divina, con una sottomissione al Signore e agli altri maestri che facilitano l'accesso presso di Lui. »
(Louis RenouL'induismo, traduzione di Luciana Meazza, Xenia, 1993, pp. 59-60)
L'accademico Gavin Flood mette l'accento sulla differenza con le altre strade della liberazione: la bhakti ha sempre privilegiato la sfera emotiva rispetto a quella della conoscenza (jñāna). Alla ricerca di un brahman trascendente e astratto, la bhakti preferisce una rappresentazione personale del divino, la venerazione e l'adorazione, sia nelle forme rituali che mistiche.[17] La bhakti è un'esperienza molto personale, per cui non poche tradizioni finiscono per rifiutare il culto templare e i movimenti istituzionalizzati.[18]
Il mistico indiano Swami Vivekananda (1863 – 1902) mette in evidenza il fatto che la bhakti è amore puro per Dio, non condizionato cioè all'ottenimento di una ricompensa, in questa vita o dopo la morte: la bhakti non è chiedere a Dio qualcosa, ma donarsi partecipando il divino in ogni attività del quotidiano.[19]
Il Bhāgavata Purāṇa, di cui si è già accennato, classifica nove forme di espressione della bhaktiśravaṇa, l'ascolto dei nomi e delle gesta di Dio; kīrtana, il canto degli stessi; smaraṇa, la ripetizione mormorata o mentale degli stessi; pāda-sevana, l'asservimento ai piedi di Dio; archana, la pratica cultuale, espressa a sua volta in sedici componenti (ṣoḍaśopacāra)[20]vandana, la reverenza; dāsya, la sottomissione; sakhya, il rapporto amichevole; ātma-nivedana, l'offerta totale di sé stessi a Dio.[21]
Il Bhakti Sūtra di Nārada (XII sec.) identifica quattro forme di espressione della bhakti verso Krishna, forme basate sui differenti tipi di relazione che il devoto può assumere: compagno, schiavo, genitore, consorte.[22]
Una delle più conosciute forme della bhakti in occidente è quella proposta dal movimento Hare Krishna e dai movimenti Gaudiya Vaisnava in genere: il coinvolgimento emotivo tra devoto e Dio è del tutto personale, intimo, ed escludente qualsiasi forma d'intermediazione sacerdotale: è espressione amorosa che si trasmette reciprocamente tra uomo e Dio. Gli Hare Krishna si rifanno agli insegnamenti espressi nella Bhagavadgītā.[23]

Note

  1. ^ Vedi bhaktispokensanskrit.de.
  2. ^ a b Anna Dallapiccola, Induismo. Dizionario di storia, cultura, religione, traduzione di Maria Cristina Coldagelli, Bruno Mondadori, 2005.
  3. ^ Flood 2006, p. 12.
  4. ^ Nancy M. Martin, North Indian Hindi Devotional Literature; in The Blackwell companion to Hinduism, a cura di in Gavin Flood, Blackwell Publishing, 2003, p. 183.
  5. ^ Bhajan: Hindu Devotional Musichinduism.about.com.
  6. ^ "Oṃ tat sat" (lett.: "Oṃ, questo è l'essere"), è una formula rituale, interpretabile come «L'essenza di tutto è la Parola [il Logos]».
  7. ^ Flood 2006, p. 209.
  8. ^ Flood 2006, pp. 174-176.
  9. ^ Entrambe le correnti sono state successivamente assorbite in tradizioni di più vasta portata, i primi nello Śaivasiddhānta, i secondi nello Śrivaiṣṇava, ma molti dei canti sono tuttora usati nelle liturgie odierne.
  10. ^ Flood 2006, p. 175 e p. 177.
  11. ^ Apparbritannica.com
  12. ^ Flood 2006, p. 179.
  13. ^ Citato in Gavin Flood, The Blackwell companion to Hinduism, Blackwell publishing, 2003, p. 139.
  14. ^ «O sapore infinitamente, dolce di siffatto nettare! Questo desiderio ardente di servire Śiva lo sterminatore: forse che in lui, nell'attimo di tempo, non si rinnovi sempre quel sapore?» UtpaladevaŚivastotrāvalī, citato in Padoux 2011, p. 179.
  15. ^ André PadouxTantra, traduzione di Carmela Mastrangelo, a cura di Raffaele Torella, Einaudi, 2011, p. 179 e segg.
  16. ^ Il testo è di datazione incerta, ma comunque successivo al IV secolo a.e.v. nella sua prima formulazione; più realisticamente composto nei primi secoli dell'era attuale e successivamente anche rimaneggiato.
  17. ^ Flood 2006, p. 180 e p. 186.
  18. ^ Flood 2006, p. 177.
  19. ^ Swami VivekanandaSwami Vivekananda - Bhakti Yogaramakrishna-math.org.
  20. ^ Sedersi, invitare Dio, offrirgli acqua per lavare le gambe, acqua per lavare la bocca, lavare la bocca, lavare le gambe, offrirgli acqua da bere, fiori, incenso, lampade, profumi, cibo, miele o burro chiarificato, indumenti, preghiere, decorare il corpo del Signore.
  21. ^ Da Bhāgavata Purāṇa, VII, 5, 23; Cfr.: Sisir Kumar Das, A History of Indian Literature, 500-1399, Wellwish Printers, 2005, p. 175.
  22. ^ Flood 2006, p. 180.
  23. ^ Vedi The Official Website of The Hare Krishna Movement Organizationiskcon.org.

Bibliografia

Voci correlate