giovedì 13 luglio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 81. L'autunno del Patriarca

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Dopo vari interventi chirurgici e un lunghissimo periodo di riabilitazione, alla fine Ettore Ricci riuscì a realizzare il suo ultimo desiderio: tornare nella sua terra da uomo libero.
Gli arresti domiciliari erano stati revocati e i processi si erano conclusi per lo più con assoluzioni o lievi condanne pecuniarie.
Tornò nella Contea di Casemurate nel mese di luglio del 1991.
Fu accolto con grande affetto dalla famiglia e in particolare da sua moglie.
Diana sapeva che quella, per suo marito, poteva essere l'ultima estate, e fece tutto il possibile affinché fosse perfetta.
Le figlie e i nipoti scattarono loro molte foto che li ritraggono felici, nello splendore della campagna del Feudo Orsini, la cui bellezza fortunatamente nascondeva i gravi problemi economici ai quali lo aveva condotto la catastrofica gestione del Commissario pro tempore Lambrugo Bava, detto "Tra Virgolette" e "Mattoncini Lego".
Il nuovo Consiglio di Amministrazione affidò ad Ettore la Presidenza onoraria, ma la gestione effettiva fu affidata congiuntamente ai due Soci Accomandatari, e cioè i suoi generi Ermanno Spreti da Serachieda e Saverio Zanetti Protonotari Campi.
La loro gestione fu molto oculata e risparmiosa, ma mancava di quella spregiudicatezza necessaria per incrementare i guadagni.
Gli altri soci e i creditori attendevano la dipartita del vecchio Patriarca.
Fintanto che Ettore fosse rimasto in vita, nessuno di loro avrebbe osato attaccarlo apertamente, ma dopo... tutto era possibile.
Riguardo ai traditori, Ettore era stato fin troppo indulgente.
Michele e Ida Braghiri rimasero a Villa Orsini.
<<Volevi prendere il mio posto e hai fallito>> disse Ettore a Michele <<Ed io ti condanno a rimanere te stesso per il resto dei tuoi giorni>>
Michele tentava disperatamente di aggrapparsi agli ultimi residui di orgoglio su cui poteva contare:
<<Vivrò comunque più a lungo di te>>
Ettore sorrise:
<<E dimmi, Michele, come farai, per tutti i giorni che ti restano, a convivere con la tua coscienza?>>
Michele cercò invano una risposta efficace e alla fine dovette arrendersi:
<<Non lo so... >>
E passò luglio e passò Ferragosto.
Il granturco nei campi era maturo.
Ettore e Diana si presentarono per l'ultima volta alla Festa danzante a Villa Spreti.
Lui non poteva più danzare come negli anni precedenti, eppure il ricordo dei balli del passato, che erano stati in apparenza così formali, divenne all'improvviso dolce, come se tra i due vecchi sposi fosse sempre esistita quell'intesa speciale che si era venuta a creare negli ultimi mesi.

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Chi avrebbe mai detto che i due giovani che 56 anni prima si erano uniti in un matrimonio combinato e destinato per decenni ad essere quasi una guerra, si sarebbero infine innamorati da vecchi, quando ormai non c'era più tempo?
Anche questo fa parte dei misteri della vita, e dei suoi paradossi.
Quegli ultimi mesi furono per Ettore come il canto del cigno.
Le sue condizioni incominciarono a peggiorare ai primi di settembre.
La grande energia che per tutta la vita aveva continuato a erompere da lui come un vulcano, iniziò a declinare.
Il suo grande cuore era affaticato e all'epoca la chirurgia cardiovascolare era molto più rischiosa e meno efficace di adesso.
Anche i polmoni erano affaticati e appesantiti dall'edema.
Tutto questo accadeva in un uomo che moralmente si sentiva ancora giovane e che rifiutava l'idea della morte.
Gli uomini di successo faticano ad accettare la vecchiaia e la malattia e temono la morte molto più degli altri.
Paradossalmente sua moglie Diana, afflitta da atroci emicranie e da continue crisi di melanconia, aveva sempre pensato con sollievo all'idea della morte, vedendola come una liberazione da quella sostanziale fregatura che era la vita: eppure le toccò vivere molto più a lungo del marito, che invece amava la vita e odiava la morte.
Non c'era quindi nessuna ipocrisia retorica nella frase che Diana Orsini ripeteva spesso al marito:
<<Se potessi dare la mia vita in cambio della tua lo farei immediatamente. Se qualche divinità è in ascolto, prenda pure me, e lasci stare mio marito!>>
Ma lo stesso Ettore scuoteva il capo:
<<Le nostre figlie e i nostri nipoti hanno bisogno di te. Quando in una famiglia muore il padre, la madre riesce a tenere insieme il resto, ma quando succede il contrario, tutto si sfalda. 
Hai visto cos'è successo quando Giulia Monterovere è morta? Il vedovo si è chiuso in se stesso e i figli si rivolgono a malapena la parola. No, mia cara Diana, tu hai il dovere di vivere e di tenere unita questa grande famiglia che io e te abbiamo creato>>
Sentendo la fine avvicinarsi, incominciò a provare quel sentimento comune a tutti gli uomini che si rendono conto di aver dedicato troppo tempo al lavoro e poco a tutto il resto.
Pensò alle cose che avrebbe voluto fare, ai luoghi che avrebbe voluto visitare, a quelli che non avrebbe mai visto, agli amici perduti, ai desideri infranti.
Gli anni erano trascorsi veloci danzando freneticamente come falene intorno al fuoco della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo.
Se fosse stato un sentimentale, avrebbe confessato tutto questo a suo nipote e l'avrebbe svincolato dalla promessa di risollevare le sorti del Feudo Orsini.
Ma Ettore Ricci era tutto tranne che un sentimentale e quindi non disse mai a Riccardo quello che pure i suoi occhi sembravano tradire, e cioè che la vita è nel presente, ed il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché siamo giovani, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute.
Finì l'estate e passò la vendemmia.
L'autunno del Patriarca era iniziato.
Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno.
Fu seppellito nella Cappella Ricci-Orsini, nel Cimitero di Casemurate.
Sulla lapide volle una riproduzione dell' "Entierro del Duque de Orgaz" di El Greco, e come epigrafe una citazione della "Memoria immortale del Duca di Osuna", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano

Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
    Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
    En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
    Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.

Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer la Spagna gli diede,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione quelle estranee.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoreranno con lamento il lor dolore.