domenica 5 novembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 86. Partire è un po' morire



Quella mattina di fine settembre del 1994, mentre saliva sull'Intercity 21-34 per Milano Centrale, Riccardo Monterovere non poteva sapere che la sua lontananza da casa si sarebbe protratta, salvo brevi periodi imposti dalle circostanze, per quasi 23 anni, cioè più tempo dell'età che aveva allora.
Era pieno di sogni, come tutte le matricole universitarie, e profondamente ingenuo e inconsapevole rispetto alla realtà delle cose e alle ingiustizie della vita, che si sarebbe incaricata di sopprimere tali sogni uno dietro l'altro, con la precisione di un cecchino.
Non poteva sapere, inoltre, che ciò che si lasciava alle spalle era la parte migliore della sua esistenza, mentre ciò a cui andava così baldanzosamente incontro si sarebbe rivelato una palude di sabbie mobili in cui sarebbe rimasto impantanato per decenni, nel tentativo maldestro, oltre che vano, di sfidare il destino a colpi di ottuso ottimismo e di velleitaria buona volontà, come suggerivano le tecniche psicologiche "usa e getta" di quell'età sudicia e sfarzosa.
Non poteva saperlo, certo, ma esisteva in lui una sorta di intuizione, o se vogliamo usare un termine più controverso, di premonizione, che faceva filtrare, nella dolcezza di quella mattina di settembre piena di luminose aspettative, una vena di inquietudine e di inspiegabile nostalgia per qualcosa che lui ancora non aveva perduto.
Anni dopo, imbattendosi in una poesia di Edmond Haraucourt, avrebbe trovato le parole che meglio esprimevano ciò che quell'inquietudine nascondeva nel profondo della sua anima.

" Partire è un po' morire

rispetto a ciò che si ama


poiché lasciamo un po' di noi stessi


in ogni luogo ad ogni istante.


E' un dolore sottile e definitivo


come l'ultimo verso di un poema...


Partire è un po' morire


rispetto a ciò che si ama.


Si parte come per gioco


prima del viaggio estremo


e in ogni addio seminiamo


un po' della nostra anima. "


In fondo le persone che partono per seguire un proprio desiderio o una propria esigenza è come se dichiarassero al mondo intero, ma non a se stessi, la propria insoddisfazione per ciò che si lasciano alle spalle.
Chi parte è un insoddisfatto, mentre chi resta è una persona felice, che ama la sua vita così com'è,
allo stesso modo in cui progressisti, rerum novarum cupidi, sono scontenti dello stato delle cose, mentre i conservatori ne sono soddisfatti e vogliono preservare ciò che esiste.
I lettori, specie i viaggiatori e i progressisti, storceranno il naso nel leggere queste parole, e sentiranno il bisogno di dire a se stessi che non è vero, che per loro il viaggio è solo un piacevole e temporaneo diversivo in una vita pienamente serena e soddisfacente, così come il progresso è una marcia trionfale verso il "meglio". 
Balle! Tutte balle che ognuno di noi racconta a se stesso pur di non ammettere di fronte al tribunale della Coscienza la propria frustrazione, i propri desideri irrealizzati, i propri sogni infranti, la propria rabbia verso lo status quo, nascosta dietro un'ipocrita patina di stucchevole bon ton.
Alcuni riescono ad affrontare questa presa di coscienza in maniera lucida, tuffandosi in un salutare bagno nel Principio di Realtà e diventando non tanto pessimisti, quanto ironici e sarcastici nei confronti dell'ottimismo buonista di chi ancora crede a Babbo Natale.
Ma sono pochi, perché è difficile guardare in faccia la realtà per quella che è.
Tutti gli altri, invece, fanno finta che le loro vite più o meno mediocri siano una meraviglia, e sfogano le proprie censurate frustrazioni in estenuanti pratiche sportive, o in una concezione integralista della religione o in qualche altra forma meno salutista di dipendenza: festini, divertimenti superficiali, euforie effimere, insomma tutto pur di evitare l'horror vacui della noia di chi non riesce a stare in casa per più di mezza giornata.
I miei lettori mi staranno mandando al diavolo, ma è pur sempre compito dello scrittore quello di problematizzare l'ovvio e opporsi all'idolatria del fatto compiuto.
Prendiamo dunque il caso dello sportivo ossessivo-compulsivo, cioè di quello che eccede nell'attività fisica, andando ben oltre ciò che sarebbe richiesto per uno stile di vita salutare.
Costui si è reso dipendente dalle endorfine che quotidianamente la sua sfrenata attività fisica riversa sul sistema nervoso, allo stesso modo in cui un oppiomane dipende dalla sua dose quotidiana di eroina.
Certo lo sport compulsivo è una dipendenza non tossica, ma il solo fatto di averne bisogno in maniera massiccia è la prova di una frustrazione indicibile, da scatenare come un animale selvaggio contro una preda che tuttavia riesce pur sempre a non lasciarsi afferrare.
Alla luce di queste considerazioni, qualcuno si chiederà cosa mai sia successo a Milano al povero Riccardo Monterovere per renderlo così cinico e sprezzante quando poi tornò, carico d'anni e di esperienze, nel natio borgo selvaggio.
E' una storia lunga e non so se valga la pena di essere raccontata.
In ogni caso, c'è da fare una premessa.
Milano è una città in cui è facile perdersi, per chi è cresciuto in provincia.
Se poi si arriva in quella Babilonia quando si hanno a malapena 20 anni e si è nella primavera della propria giovinezzacome un fiore sbocciato e pronto per essere reciso, quasi sempre si è ancora privi di una fibra abbastanza resistente alle tenaglie di chi intende coglierci, metterci in un vaso per due giorni e al terzo gettarci via come un'erbaccia.
Ma se proprio volete conoscere i dettagli, forse più avanti qualcosa vi sarà accennato, per quanto questo romanzo sia concentrato su altre vite e tratti quella del giovane Monterovere soltanto di straforo, in quanto unico punto di intersezione dei percorsi esistenziali dei suoi avi.
Se ne parlerà più che altro per le conseguenze di tutto ciò che sarebbe accaduto, ossia una serie di singolari vicende destinate a ripercuotersi sulla vita dei superstiti antenati.